29 febbraio 2008

Ferrara. Assalto alla Metro, inizia un 'altro' processo

Ferrara. Assalto alla Metro, inizia un 'altro' processo

Si torna ancora a parlare di cosiddetta “Nuova mala del Brenta” in tribunale a Ferrara. Dopo le cinque condanne e due assoluzioni di martedì, ieri mattina sono comparsi in tribunali gli ultimi tre presunti componenti del commando che assalì nel dicembre 2002 il portavalori nei pressi dell’ingrosso della Metro. A differenza degli altri, che hanno optato per il giudizio abbreviato, Andrea Batacchi e i fratelli Angelo e Fabiano Meneghetti (difesi dallo studio dell’avvocato Franco Capuzzo del foro di Padova) hanno voluto seguire il rito ordinario. E così questa mattina si è tenuta l’udienza filtro per rapina a mano armata e tentato omicidio in concorso, nella quale è stata accolta, oltre a quella dell’agente Enzo Pontani già accolta in fase di udienza preliminare, la costituzione di parte civile di Riccardo Bassi (difeso dall’avvocato Sandro Felisati), una delle guardie giurate immobilizzate dai malviventi quella notte.

Il processo entrerà nel vivo con l’udienza fissata per il 10 aprile, quando verranno ascoltate le persone offese e i testimoni oculari spettatori involontari dell’assalto. Ma l’appuntamento più atteso è quello del 18 giugno, quando parlerà il “pentito” Stefano Galletto, già giudicato separatamente e da allora sottoposto a un programma di protezione. Per l’occasione l’intero collegio giudicante si trasferirà insieme alle parti a Padova o Bologna.

Una tangente da 97 milioni di euro per eliminare gli americani - cronaca - Repubblica.it

Una tangente da 97 milioni di euro per eliminare gli americani - cronaca - Repubblica.it

ROMA - La storia che muove le perquisizioni di Roma, Milano, Londra, che scuote il secondo gruppo industriale italiano, è, al momento, una storia di corruzione. In cui, se la ricostruzione proposta dall'istruttoria dei pubblici ministeri Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli è corretta, balla una tangente di 97 milioni di euro che, nella primavera del 2005, consegna l'azienda telefonica Wind, allora controllata da Enel, al finanziere egiziano Naguib Sawiris e alla sua "Orascom" per un prezzo nominale di 12,5 miliardi di euro (5 in meno di quanti, nel 1997, era costato ad Enel la start-up di Wind). Quei 97 milioni di euro - è l'ipotesi - servono infatti a convincere il management Enel a eliminare dalla trattativa gli americani di "Blackstone", oggettivamente più competitivi sia nell'offerta economica che nelle garanzie tecniche, e a oliare le ruote della politica.

A dispetto di un incipit apparentemente trasparente, l'affare è complesso e quantomeno controversi appaiono le mosse e il profilo dei suoi protagonisti. Nel maggio del 2005, l'allora amministratore delegato di Enel (oggi numero uno di Eni), Paolo Scaroni, annuncia che la trattativa per la cessione di Wind è chiusa con reciproca soddisfazione di compratore e venditore (il contratto sarà firmato in agosto). Sawiris rilancia infatti di 300 milioni l'offerta di "Blackstone" e chiude l'acquisto del gestore telefonico a 12,2 miliardi di euro. L'operazione ha due registi finanziari: le banche e un signore che si chiama Alessandro Benedetti, uomo che si muove all'ombra di Forza Italia, che ha conosciuto la galera nel '96, inquisito dalla Procura di Milano per bancarotta (sfugge alla condanna nel 2007 per prescrizione), casa e portafoglio a Londra, uffici, un tempo, a Palazzo Odescalchi, in piazza santi Apostoli, nel cuore di Roma (la società "Managest"). Benedetti mette a disposizione il veicolo societario sotto il cui controllo passerà Wind: la "Weather Investment", società lussemburghese di cui è presidente e che ha come socio lo stesso Sawiris.

Ma, soprattutto, definisce (attraverso la "Managest") l'architettura di un contratto in cui l'acquisto del gestore telefonico ha una peculiarità. Enel incassa dalla cessione 2,9 miliardi di euro cash, acquisendo contestualmente una partecipazione del 5 per cento nel capitale della stessa "Weather".

Sembra non se ne debba parlare più. Fino a quando, il 17 maggio dello scorso anno, Paolo Mondani firma per "Report" di Milena Gabanelli un'inchiesta televisiva ("Il mistero del Faraone") in cui un testimone, che chiede l'anonimato, denuncia una conduzione opaca dell'Enel della trattativa con Sawiris. Wind ed Enel protestano vivacemente per una rappresentazione dei fatti che dicono essere imprecisa e suggestiva. La Procura di Roma apre un'inchiesta contro ignoti.

I pubblici ministeri acquisiscono la documentazione finanziaria dell'operazione e ne colgono quelle che gli appaiono due significative anomalie. La prima è l'ingresso di Enel nel capitale della "Weather Investment". Perché - chiedono - Enel anziché scegliere la via più semplice di conservare una partecipazione azionaria di minoranza in Wind, decide di sottoscrivere un aumento di capitale della società del compratore, acquisendone una partecipazione? La risposta che si danno è una pessima notizia per Enel e per Sawiris. Perché così come congegnato, il contratto di compravendita - osservano - consente al finanziere egiziano di non spendere un solo centesimo di euro di tasca propria. Enel riconosce infatti un costo di transazione (transaction fee) per l'operazione pari a 414 milioni di euro. Vale a dire la somma matematica dei 317 milioni di euro di spese per la linea di credito bancaria accesa da Sawiris per entrare personalmente nella partita e dei 97 milioni di euro riconosciuti a Benedetti - che di "Weather" è presidente - a titolo di consulenze.

La seconda anomalia è il destino di quei 97 milioni di euro. Benedetti - per quello che le indagini della Procura avrebbero accertato documentalmente - fa rimbalzare più volte quel denaro attraverso una catena di società e conti esteri, frazionandolo a beneficio di destinatari finali della cui identità, allo stato, ancora non si sarebbe venuti a capo con certezza. Ma che fanno concludere alla Procura che quella somma tutto sia meno che una consulenza e, al contrario, somigli molto a una tangente.

Incassata da chi? In attesa che gli esiti delle perquisizioni diano o meno una risposta documentale, i due pubblici ministeri di Roma hanno in mano una qualche testimonianza non ancora decisiva che accusa l'ex direttore finanziario e oggi amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, e un testimone improvvisamente reticente, ora iscritto al registro degli indagati per il reato di false informazioni al pubblico ministero. L'uomo si chiama Tommaso Pompei. E' stato amministratore delegato di "Tiscali", ma è stato soprattutto, al momento della vendita a Sawiris, amministratore delegato di "Wind". La Procura accerta che è Pompei il misterioso testimone di "Report".

Ascolta la registrazione audio completa (anche quella dunque non andata in onda) del suo colloquio con Mondani in cui denuncia l'opacità del management Enel ed allude a tangenti alla politica, indicando in Benedetti (il consulente da 97 milioni di euro) l'uomo che le avrebbe distribuite. Eppure, al momento dell'interrogatorio, Pompei fa marcia indietro. Anche di fronte all'evidenza della registrazione, sostiene di essere stato "male interpretato".

Ne guadagna, come detto, un'iscrizione al registro degli indagati, e convince definitivamente i pubblici ministeri di Roma di essere sulla strada giusta. E dunque che sia necessario bussare, tanto per cominciare, anche alla porta di Salvatore Cirafici, ex ufficiale dei carabinieri, capo della sicurezza Wind (i suoi uffici sono stati perquisiti ieri), già apparso nella vicenda Telecom e ora ritenuto il custode di informazioni in grado di spiegare alcuni passaggi cruciali di questa vicenda. A cominciare dalle mosse curiosamente ondivaghe di Pompei nelle more della trattativa per la cessione di Wind, quando, dopo aver sostenuto con convinzione "Blackstone", sposerà la causa Sawiris, appoggiandosi proprio a Benedetti e alla sua "Managest". Per finire al ruolo e alla figura di Luigi Gubitosi, ex manager Fiat messo alla porta da Marchionne, chiamato nella nuova "Wind" al ruolo di direttore finanziario e ora, appunto, indagato per corruzione insieme a Benedetti, Sawiris e Conti.

(29 febbraio 2008)

28 febbraio 2008

Responsabilità del medico, struttura sanitaria pubblica o privata, indifferenza

Responsabilità del medico, struttura sanitaria pubblica o privata, indifferenza

Ferrara. Solvay, Legambiente chiede l'avocazione dell'inchiesta

Ferrara. Solvay, Legambiente chiede l'avocazione dell'inchiesta

La prima volta era solo una “minaccia”, un tentativo di dare uno scossone all’inchiesta. Ora la richiesta di avocazione alla procura di Bologna è realtà. È l’ultima carta in ordine di tempo che Legambiente vuole giocare per fare in modo che il caso Solvay non cada nel vuoto.

Dopo sette anni dal primo esposto in Procura per i casi di morti sospette per Cmv, Legambiente ha deciso che non è più possibile aspettare e ha presentato alla Procura generale di Bologna una richiesta di avocazione per il caso che coinvolge la multinazionale della chimica. “E’ stata una decisione estremamente sofferta – commenta la presidente di Legambiente Ferrara Marzia Marchi –, sulla quale ha pesato anche quanto successo a Marghera; ma, è proprio il caso di dirlo, a mali estremi estremi rimedi; se può servire quest’ennesimo atto di sollecitazione, ben venga”.


Sull’inchiesta, che vede aperto un fascicolo in procura per l’ipotesi di violazione dell’art. 437 (carenze in materia di igiene e sicurezza che determinano infortuni e malattie professionali), pende inesorabile la mannaia della prescrizione.

“A metà 2010, se non ci sarà una svolta procedurale – afferma David Zanforlini, il legale di Legambiente che assiste diversi ex dipendenti Solvay - delle decine di persone morte di tumore non si parlerà più. Il passo dell’avocazione (tecnicamente, la sostituzione delle attività di indagine da parte di un organo superiore, in questo caso la procura di Bologna, ndr) si è reso necessario perché qui finora non si è mosso praticamente nulla”.


Ora, se la richiesta di avocazione verrà accolta (ci sono 30 giorni di tempo) si aprono due possibilità, “o l’archiviazione o l’apertura del procedimento – prosegue Zanforlini -, ma almeno qualcosa si muoverà”. La speranza di ex dipendenti e familiari che hanno depositato gli esposti contro l’azienda che fino al 1998 trasformava all’interno del petrolchimico il gas cvm (il cloruro di vinile monomero, altamente cancerogeno) in pvc è quella di arrivare al rinvio a giudizio. “Di qui – aggiunge il legale – nel caso di una condanna in primo grado, sarebbe possibile agire per ottenere il risarcimento del danno”.


A spingere Legambiente a premere sull’acceleratore è stata anche la morte, la settimana scorsa, di Gilberto Pio, l’ex lavoratore Solvay della cui malattia nessuno era a conoscenza. Questo, secondo il legale di Legambiente, apre una serie di domande sull’operato della medicina del lavoro.

“Sono rimasto esterrefatto – ammette l’avvocato – nel sapere che il suo caso era seguito dalla medicina del lavoro e che il nome di Pio non risultasse dalle carte in mano alla procura. O c’è stata omissione in atto d’ufficio oppure l’uomo in realtà non era seguito e allora hanno mancato nel loro dovere di monitorare ogni sei mesi tutti gli ex dipendenti”.


Intanto proprio in questi giorni Comune e Filcem (la sigla dei chimici della Cgil) hanno annunciato la loro volontà di costituirsi parte civile nel caso si approdi a un processo. “Finalmente – esclama Marzia Marchi -; è da tempo che sollecitiamo passi come questo: meglio tardi che mai…”.

24 febbraio 2008 - Pedofilia, prof condannato lascia scuola: lavorerà in un ufficio della Regione con lo stesso stipendio

ECPAT-Italia - End Child Prostitution, Pornography And Trafficking

Prenderà servizio domani, ma non più nella scuola media di Pont-Saint-Martin. M. F., insegnante di musica condannato a due anni per reati collegati alla pedopornografia e riammesso dal giudice del lavoro alla sua professione di docente, andrà a lavorare al Centro per l’impiego di Verrès come impiegato di livello C2. E’ quanto ha annunciato poco fa il presidente della Regione, Luciano Caveri, che insieme all’assessore alla Cultura, Lurent Viérin, ha trovato un accordo con l’uomo e con il suo rappresentante legale, l’avvocato Giuseppe Greppi del foro di Casale Monferrato.

“E’ stato chiesto il collocamento fuori ruolo - ha spiegato Caveri - sulla base di quanto previsto dalla legge n. 57 del 1983 per il personale scolastico. E da domani mattina il suo lavoro si svolgerà nell’ufficio dell’impiego della bassa Valle”.

“Per noi - ha dichiarato l’assessore Viérin - si conclude una vicenda molto delicata con una soluzione che comunque protegge il mondo della scuola”. Soddisfatto anche il legale di M. F.: “Esprimo piena soddisfazione - ha detto l’avvocato Greppi - anche a nome del mio assistito per una strada che concilia l’interesse pubblico, della famiglia e della scuola”. “La persona collocata fuori ruolo - ha aggiunto l’avvocato - può chiedere in futuro di rientrare nella sua precedente professione, ma non è interesse del mio assistito avanzare una richiesta di questo genere". Greppi ha puntato il dito anche sulla bagarre mediatica che si è scatenata sulla vicenda: “Quanto si è detto e scritto in questi giorni ha confuso le acque e non ha giovato alla serenità della famiglia del mio cliente, soprattutto per i figli”.

fonte: Aosta Sera, AGI News

«Dai carabinieri una legnata morale» Corriere della Sera

«Dai carabinieri una legnata morale» Corriere della Sera

COMO - «Siamo stati a Como da McDonald's». Durante le sue dichiarazioni spontanee alla Corte d'Assise del capoluogo lariano, nel corso della nona udienza per la strage di Erba, Olindo Romano, imputato con la moglie Rosa Bazzi, è tornato alla versione iniziale, quella resa prima del suo fermo, per protestare la sua innocenza. Nella strage, l'11 dicembre del 2006, morirono quattro persone tra cui un bambino di poco più di due anni. «Quando arrivai c'era folla - ha raccontato Olindo - poi ho viso il signor Castagna, era un uomo distrutto. Abbiamo incrociato lo sguardo, mi vennero in mente le liti, le banalità, perchè lo insultavo». Poi un vicino, che era stato nell'appartamento gli disse che «era peggio di un film dell'orrore».

«LEGNATA MORALE» - Romano è tornato a parlare del suo rapporto con i carabinieri, che già nel precedente intervento in aula aveva accusato di avergli praticato un vero e proprio «lavaggio del cervello». «La cosa più brutta è quando mi prospettarono a che cosa andavo incontro - ha detto ripercorrendo il colloquio con due militari che, il 10 gennaio del 2007, andarono al carcere del Bassone di Como per prendergli le impronte digitali prospettandogli il rischio dell'ergastolo -. Mi diedero una legnata morale». «L'8 gennaio fu il giorno più brutto della mia vita - ha aggiunto Olindo - quando vennero i carabineri a prendermi pensavo mi portassero in caserma, invece mi trovai davanti all'ingresso del carcere. Ebbi l'impressione che fossimo due cani da abbandonare». Parlando poi della confessione ritrattata ha spiegato: «Che cosa dovevo confessare? Noi non abbiamo ucciso nessuno».

LE INTERCETTAZIONI - Prima del suo intervento erano state riproposte le intercettazioni ambientali raccolte dagli inquirenti. «E che ca... fanno perdere tempo a noi - diceva in un passaggio Rosa Bazzi -, continuano a chiamarci in caserma ed io devo ancora pulire le scale. Se invece sarebbero intervenuti prima non sarebbe successo quello che è successo. Che vadano ad interrogare quello là (Azouz, ndr) ed i suoi amici marocchini». Molte delle parole pronunciate sono incomprensibili ma quello che si può evincere, nel suo complesso, è l'assoluta tranquillità dei coniugi Romano che parlano di tutto cercando di evitare il più possibile discorsi legati alla strage, avvenuta sopra le loro teste. Da una delle intercettazioni pare di capire che i due coniugi sospettino essere intercettati. In poco meno di un mese sono state effettuate 2.088 intercettazioni ambientali attraverso cimici piazzate in casa (in particolare sulla testata del letto, in bagno, nella lavanderia, in cucina) e sull'auto. Nelle parti di intercettazioni proposte oggi ai giudici popolari e togati, si sentono Olindo e Rosetta «riflettere» sulla presenza di extracomunitari nella vecchia corte e sulla possibilità di andare ad abitare in un'altra parte.

L'INCIDENTE STRADALE - L'udienza dera iniziata in ritardo, a causa di un incidente stradale senza gravi condizioni di cui è stato protagonista il cellulare della penitenziaria che stava accompagnando in tribunale i due imputati. Nulla di significativo, soltanto un semplice tamponamento ad un altra auto. Ma tanto è bastato perché il furgoncino con la scorta si fermassero per effettuare l'accertamento dei danni.

MA ROSA NON PARLA - Olindo ha deciso di rendere delle dichiarazioni spontanee, come già mercoledì aveva ipotizzato il suo avvocato, Enzo Pacia. La moglie, Rosa Bazzi, invece, sempre secondo quanto ha riferito il legale, potrebbe rinunciare all'esame e avvalersi della facoltà di non parlare. «La nostra assistita - ha spiegato sempre Pacia - è due giorni che piange ininterrottamente, soprattutto dopo le pesanti accuse rivolte da Mario Frigerio». Non ci sarà, quindi, un interrogatorio, come sembrava dovesse essere dopo l'udienza di martedì scorso, nel senso che ai coniugi non potranno essere poste domande.

I PRECEDENTI INTERVENTI - L'ex netturbino aveva già reso dichiarazioni spontanee in altre due occasioni: durante l'udienza preliminare per dire che era «innocente» e per ritrattare sostanzialmente le confessioni rese davanti a pm e gip e, più di recente, in dibattimento. Disse di aver subito una sorta di «lavaggio del cervello» da parte di due marescialli dei carabinieri, mentre, nel carcere del Bassone di Como erano andati per prendergli le impronte digitali. Circostanze smentite dai militari, i quali avevano detto in aula che fu Olindo a dire loro di volersi liberare la coscienza e, mentre erano in attesa del magistrato davanti al quale avrebbe confessato, era «un fiume in piena di parole» sulla dinamica della strage.



28 febbraio 2008

La caccia al colpevole perfetto e l'inchiesta è finita in un pantano - cronaca - Repubblica.it

La caccia al colpevole perfetto e l'inchiesta è finita in un pantano - cronaca - Repubblica.it

L'inchiesta ha tanti buchi quanti ce ne sono nel ventre di Gravina in Puglia. Il padre era il colpevole perfetto e sembra proprio un brutto pasticcio giudiziario quello che si sta per rivelare intorno alla morte di Francesco e Salvatore, i fratellini ritrovati in fondo a una caverna. Errori, passi falsi, incertezze investigative.

Il "caso" è raccontato soprattutto da una frase, due righe scritte da quei magistrati di Bari che hanno deciso l'arresto del padre per l'omicidio dei suoi figli. È alla pagina 165 dell'ordinanza di custodia cautelare contro Filippo Pappalardi: "Sarà sua cura, se lo vorrà, spiegare a questa Autorità Giudiziaria dove li abbia portati e, soprattutto, dove gli stessi siano attualmente". I procuratori hanno praticamente chiesto all'imputato di fornire le prove che loro non avevano trovato. È la sintesi di un'investigazione, il riassunto di diciassette mesi di ricerche.

È la fine del novembre del 2007, il padre violento è appena finito in carcere per avere ammazzato i due bimbi, l'inchiesta è chiusa e con una rapidità sorprendente - 15 minuti è il conto che fa Angela Aliani, l'avvocato di Pappalardi - il Tribunale del riesame conferma l'impianto accusatorio che indica nel violento autotrasportatore l'assassino di Salvatore e Francesco.

"Filippo Pappalardi non può confessare quello che non ha fatto, è incredibile, i procuratori dicono che è stato lui a uccidere i suoi figli senza però dimostrarlo con gli atti", accusa sempre l'avvocato Aliani dopo aver letto le carte sull'arresto del padre padrone. E denuncia, dopo il Tribunale del riesame: "Quei giudici sono senza pudore, poco più di un quarto d'ora per decidere su una situazione così complessa, significa che sapevano già come sarebbe andata a finire prima di entrare in camera di consiglio: scandaloso".

Bisogna cominciare dalla fine per ricostruire questa inchiesta che vacilla sempre di più dopo la scoperta dei corpicini, la loro posizione in fondo al pozzo (erano distanti uno dall'altro, segno inequivocabile che erano ancora vivi, che uno dei due si è spostato di almeno quindici metri), il luogo inaccessibile senza essere visti da qualcuno, la frattura del femore del bambino più grande. Bisogna cominciare da quell'ordinanza di custodia cautelare quando i magistrati arrivano all'assassino. Interpretando malamente parole intercettate. Credendo frettolosamente a una tardiva testimonianza. Lasciandosi trasportare da suggestioni per azzardare ipotesi che oggi sembrano smentite dai fatti.

Per esempio. Nell'atto di accusa i magistrati scrivevano ancora: "Solo la perfetta conoscenza del territorio, l'indagato ha fatto anche il pastore, poteva agevolare l'occultamento dei cadaveri rendendo vane le ricerche fin qui operate in un luogo impervio come quello della Murgia ricca di gravine e pozzi".

Il pozzo della morte non era così lontano, appena cinquecento metri dalla piazza Quattro Fontane, il centro di Gravina in Puglia, l'ultimo posto dove - secondo l'accusa - avevano avvistato Francesco e Salvatore. Era stato controllato quel pozzo ma distrattamente, qualcuno si era avventurato sul precipizio di quella "bocca" sul terrazzino del caseggiato abbandonato, aveva gettato un'occhiata in fondo e poi se n'era andato. Non aveva visto niente. È stato un controllo scrupoloso? E come si fa un controllo scrupoloso dentro un pozzo quando si cercano i cadaveri di due bambini? Con una torcia? Con i vigili del fuoco? Scendendo con le corde nei sotterranei?

Quello che sappiamo di sicuro è che i "soccorsi" di lì sono passati, hanno lasciato una freccia di vernice rossa e se ne sono andati. Francesco e Salvatore c'erano ma non li hanno trovati. I soccorsi? Quali soccorsi? "Le ricerche sono scattate solo il giorno dopo la scomparsa dei bambini", ricorda l'avvocato Aliani.

In verità la ricostruzione della polizia è un po' diversa. Alle 23,50 del 5 giugno 2006, Filippo Pappalardi e la sua compagna Rosa Ricupero si sono presentati al commissariato. Parlano con un poliziotto, raccontano che Francesco e Salvatore si sono allontanati "e comunque non sporgono una formale denuncia di scomparsa". Un paio di ore dopo, "esattamente all'1,40 del mattino del 6 giugno, il Pappalardi si portava nuovamente presso il commissariato senza entrarvi, citofonicamente, comunicava di non avere ricevuto più notizia dei suoi figli".

Alle 7 il padre è contattato telefonicamente dai poliziotti del commissariato di Gravina, gli chiedono se ha trovato Francesco e Salvatore, lui risponde di no. Invitato a tornare in commissariato, dice che non può, sta lavorando. È in quel momento che, a torto o a ragione, nasce il primo sospetto sul padre "assassino".

Il resto dell'indagine sono quasi due anni all'inseguimento di un indizio. La pista "romena", le sette sataniche, i pedofili. E di voci captate ai telefoni o dalle microspie. Quella del padre più di tutte. Una mattina è con suo cognato Giuseppe, sono in campagna per dar da mangiare ai cani. Filippo dice al cognato: "È da sabato o da domenica che non vengo qua, dovessero pure morire i cani qua". È una tipica espressione dialettale ma quelle sono parole che lo inchiodano, quel "pure" porta Filippo Pappalardi in galera. Anche se le ruspe scavano e scavano in quel terreno ma non trovano niente.

Un'altra telefonata intercettata, un altro indizio contro il padre: "Mai successa la morte di due fratelli, eh". Filippo Pappalardi "dava per scontato" che i suoi figli non ci fossero più. Quindi sapeva, lo sapeva soltanto lui, perché lui li aveva uccisi. Il profilo dell'indiziato si adattava ai sospetti: prepotente e manesco. Anche la sua miserabile vita era quella ideale per un assassino.

La sua tragica storia familiare, la sua provenienza sociale, i suoi modi selvatici, la sua strafottenza nei confronti dei magistrati che l'avevano interrogato per due volte. L'identikit di un omicida perfetto. Un colpevole "a tutti i costi". La giustizia, si sa, è uguale per tutti.


(28 febbraio 2008)

26 febbraio 2008

Quotidiano Net - Sport - Moggi all'udienza: "Mi sono divertito"

Quotidiano Net - Sport - Moggi all'udienza: "Mi sono divertito"

Roma, 26 febbraio 2008 - E' ripreso con Luciano Moggi in aula il processo Gea, con imputati proprio l'ex dg della Juventus e il figlio Alessandro Moggi, Davide Lippi, Franco Zavaglia, Pasquale Gallo e Francesco Ceravolo, accusati di associazione a delinquere finalizzata all'illecita concorrenza. Davanti alla decima sezione penale del tribunale di Roma, presidente Luigi Fiasconaro, sono comparsi, tra gli altri, il procuratore Marco Trabucchi e i calciatori Fresi, Boudianski e Zeytulaev. Quattro ore in cui i testimoni hanno raccontato le loro storie. Trabucchi quella dell'arrivo in Italia di Boudianski e Zeytulaev, i due calciatori invece delle pressioni fatte su di loro da Ceravolo (allora responsabile del settore giovanile della Juventus) perche' passassero ad avere come procuratori degli uomini della Gea. I due hanno raccontato anche di un incontro avuto in un albergo di Torino e organizzato per fare conoscere loro Alessandro Moggi.



L'imputato Luciano Moggi ha voluto precisare alcune cose, chiedendo la parola. E, prima che il presidente Fiasconaro lo riprendesse per una uscita poco felice ("Boudianski dice certe cose perche' c'e' qualcuno che fuori da questa aula gliele suggerisce"), ha detto che i guai per i due calciatori in questione sono iniziati proprio con Trabucchi, il quale prima che approdassero alla Juve aveva fatto girare i calciatori per l'Italia facendo provini mai passati. E soprattutto aveva messo loro in testa di potere fare carriera e soldi.



Poi e' toccato a Salvatore Fresi. E al suo racconto: "Il procuratore Gallo mi ha contattato dicendomi che solo con la Gea potevo arrivare alla Juve o ad altre grandi squadre. La decisione di cambiare agente l'ho presa dopo un incontro con i Moggi". Ma un anno e mezzo dopo essere arrivato in bianconero, con pochissime presenze, "sono iniziate le minacce per andare via, destinazione Perugia. Cosi' abbiamo trovato un accordo e me ne sono andato. Deluso, pero', non ho rinnovato la procura con la Gea".



E a questo punto tra Fresi e la Gea e' iniziata una battaglia legale non ancora conclusa per una storia di soldi. "Con Fresi c'e' stata una risoluzione consensuale del contratto e mai minacce", ha voluto precisare nuovamente Luciano Moggi. Che alla fine, lasciando l'aula, si e' fermato per qualche minuto con i giornalisti. "Sono titubante su quanto ho sentito- ha detto- Sono venuto anche per conoscere il presidente Fiasconaro e mi sembra una bravissima persona. Se tornero'? Se e' cosi' divertente si'. Ma per giovedi' credo che avro' qualche linea di febbre...". Giovedi', nella prossima udienza gia' fissata, dovrebbero essere ascoltati, tra gli altri, David Trezeguet, Nicola Amoruso e il procuratore Antonio Caliendo.

Diritto alla salute e danno esistenziale

Diritto alla salute e danno esistenziale

Quotidiano Net - Cronaca - Concessi gli arresti domiciliari a Coppola

Quotidiano Net - Cronaca - Concessi gli arresti domiciliari a Coppola

Roma, 26 febbraio 2008 - Il Tribunale del riesame, presieduto da Antonio Losurdo, ha concesso gli arresti domiciliari a Danilo Coppola. L'istanza presentata dai difensori il 17 dicembre scorso è stata discussa sabato nella cittadella giudiziaria di piazzale Clodio.




L'immobiliarista è tornato in carcere dopo la decisione del tribunale, in seguito all'evasione dagli arresti domiciliari. I legali di Coppola, gli avvocati Michele Gentiloni Silveriij e Claudio Coratella, avevano motivato la richiesta ribadendo che il reato di bancarotta fraudolenta, in riferimento al fallimento della Micop Immobiliare, per cui Coppola è detenuto dal 1 marzo dello scorso anno, non ha motivo di esistere perché, con il versamento al fisco di oltre 8 milioni di euro, è stato cancellato ogni debito.




Ad oggi Coppola è ricoverato al Policlinico Gemelli, in seguito al grave deperimento psicofisico in cui è stato trovato dai periti nominati dallo stesso tribunale. Il motivo principale del ritorno dietro le sbarre è legato alla breve evasione che mise in atto il 6 dicembre, durante la quale rilasciò anche una intervista a 'Skytg24'. Il pm Rodolfo Sabelli in udienza aveva espresso parere contrario alla revoca della misura cautelare sostenendo che, con il ricovero in ospedale, dove è piantonato, per Coppola sono contemperate sia le esigenze cautelari sia salvaguardia della salute.

23 febbraio 2008

ThyssenKrupp, sei indagati Omicidio volontario all'ad - cronaca - Repubblica.it

ThyssenKrupp, sei indagati Omicidio volontario all'ad - cronaca - Repubblica.it

TORINO - I dirigenti delle acciaierie ThyssenKrupp sapevano che gli operai del proprio stabilimento rischiavano la vita ogni volta che entravano a lavorare, eppure hanno colpevolmente evitato di adottare le necessarie misure di sicurezza antincendio. Uno di essi, addirittura, Harald Espenhahn, l'amministratore delegato del gruppo italiano, avrebbe mandato i lavoratori incontro alla morte con la piena consapevolezza che, nei reparti sguarniti della fabbrica, un incendio sarebbe potuto scoppiare da un momento all'altro.

Sono queste le conclusioni dell'inchiesta sul tragico rogo della Thyssen, che la notte del 6 dicembre scorso provocò la morte di sette operai, bruciati vivi dalle fiamme divampate all'improvviso da un laminatoio e spirati uno a uno, dopo lunghe e terribili agonie, nei giorni successivi alla sciagura.

Il pool di magistrati coordinato dal procuratore Raffaele Guariniello ha chiuso in meno di tre mesi le indagini formulando nei confronti dei sei manager indagati ipotesi di reato pesantissime: per Espenhahn l'accusa di incendio e omicidio volontario con dolo eventuale, per gli altri - a seconda delle condotte - omicidio colposo e incendio colposo con colpa cosciente e omissione volontaria di cautele contro gli infortuni. Oltre a Espenhahn sono indagati i consiglieri delegati Marco Cucci e Gerald Priegnitz, un responsabile in servizio alla sede di Terni della multinazionale, Daniele Moroni, il direttore dello stabilimento di Torino Giuseppe Salerno, il responsabile del servizio di prevenzione dei rischi sul lavoro Cosimo Cafueri. La ThyssenKrupp è inoltre chiamata in causa come persona giuridica.

È la prima volta che a un indagato in un'inchiesta in materia di infortuni sul lavoro viene contestato il reato di omicidio volontario. Un'accusa mossa in relazione alla sua posizione di vertice con i massimo poteri decisionali di spesa in particolare relativamente a due decisioni. L'imputazione di omicidio volontario si basa infatti su questi due elementi: innanzitutto l'amministratore delegato Harald Espenhanh ha posticipato dal 2006-2007 al 2007-2008 gli investimenti per il miglioramento dei sistemi antincendio dello stabilimento di Torino, pur sapendo che a quella data la sede sarebbe stata chiusa.

Il secondo punto riguarda poi l'adeguamento della linea 5, quella dove si verificò il disastro: anche in questo caso, nonostante le indicazioni tecniche fornite da un gruppo di studio interno all'azienda e anche da una compagnia assicuratrice, fu deciso di dotarla di impianti di rivelazione incendi e di spegnimento all'epoca successiva al trasferimento a Terni, nonostante gli impianti fossero in piena attività.

Dalle indagini, dal racconto degli operai superstiti e dalle testimonianze dei tecnici dell'Asl è emersa una realtà molto problematica, rivelata dalla contestazione di ben 116 violazioni delle norme di sicurezza da parte dei servizi ispettivi. Il grado di consapevolezza dei rischi da parte dell'azienda è messo poi in evidenza dal fatto che due incendi senza conseguenze nelle fabbriche del gruppo, uno a Torino e uno in Germania, non indussero la multinazionale a prendere alcun provvedimento, malgrado la compagnia che assicurava lo stabilimento piemontese avesse elevato da 30 a 100 milioni la franchigia a carico della Thyssen, con una scelta che constatava per esempio l'assenza di dispositivi automatici antincendio.

Giorgio Airaudo, segretario provinciale della Fiom, ha commentato: "Tre mesi per chiudere l'inchiesta su una strage come quella della thyssen è l'esempio di una giustizia efficace, che funziona, che sa essere rapida di fronte a sciagure così gravi. Noi come sindacato ci costituiremo parte civile e per la prima volta avanzerà la stessa richiesta un gruppo di lavoratori della Thyssen. Perché, se l'accusa di dolo eventuale verrà accertata, allora quell'incidente e quella fine potevano capitare a tutti gli operai della Thyssen. Una risposta che potrà risultare efficace anche sotto il profilo della prevenzione. Se la magistratura dimostra di essere capace di perseguire in tempi così brevi chi non segue le norme sulla sicurezza, sarà un valido spauracchio per chi ha poca attenzione per la salute e l'incolumità dei lavoratori".

(23 febbraio 2008)

Multabile chi dice 'Che c... vuoi' Cassazione: "Disprezza la dignità" - cronaca - Repubblica.it

Multabile chi dice 'Che c... vuoi' Cassazione: "Disprezza la dignità" - cronaca - Repubblica.it

ROMA - Non è soltanto un'espressione estremamente volgare, ma costituisce anche una vera e propria ingiuria. E pertanto chi dice 'Che c... vuoi' può essere legittimamente multarlo. A stabilirlo è la Cassazione che sottolinea come l'espressione,"oltre che triviale", è "sinonimo di disprezzo dell'uomo e della sua dignità".

I supremi giudici sono intervenuti sul caso di un 26enne di Potenza, Rocco B., reo di essersi rivolto a dei poliziotti dicendo loro 'che c... volete, chi c... siete'. Immediata la denuncia e la multa per ingiuria aggravata (nella sentenza 7656 della Quinta sezione penale non si specifica l'entità della multa) inflitta a Rocco B. dalla Corte d'appello di Potenza, nel novembre 2006.

Inutilmente il giovane (condannato anche per lesioni aggravate nei confronti di un poliziotto) si è rivolto alla Cassazione al fine di ottenere la cancellazione della multa inflitta per quell'espressione tanto diffusa "certamente di significato scurrile - ha argomentato la difesa - ma non idonea a ledere l'onore e il decoro della persona cui era stata rivolta".

Piazza Cavour ha respinto il ricorso e ha osservato che la multa non va cestinata poiché legittimamente "la Corte territoriale ha argomentato che la frase rivolta agli operanti, oltre che triviale, ha una oggettiva idoneità a ledere l'onore ed il decoro del destinatario, tanto più nel caso in esame, apparendo evidente il proposito di mortificare l'operato degli agenti, apostrofati, nell'adempimento del proprio dovere, con un epiteto che è sinonimo di disprezzo dell'uomo e della sua dignità".

22 febbraio 2008

Cassazione: va rispettato il timore degli immigrati di subire repressioni

Cassazione: va rispettato il timore degli immigrati di subire repressioni

Ciò che per noi non costituisce una minaccia, può diventarlo per per un immigrato. E' quanto evidenzia una sentenza della quinta sezione penale della Corte di Cassazione (n. 46405/2007) che invita ad una maggiore tolleranza nei confronti degli extracomunitari spesso preoccupati per possibili interventi repressivi. La "manifestata volonta' di chiamare la polizia - scrive la Corte - se appare irrilevante per un cittadino italiano che non si sia macchiato di alcun reato, potrebbe costituire una minaccia quando venga rivolta nei confronti di un cittadino extracomunitario, che, anche se estraneo a quel fatto specifico, spesso si trova in condizioni di difficolta' e, comunque, di preoccupazione per l'intervento repressivo della pubblica autorita'". Nella sentenza la Corte si è occupata del caso di una sorvegliante di un supermercato che i giudici di merito avevano condannato per sequestro di persona ai danni di una cittadina extracomunitaria. La donna era stata accusata di aver riposto nella borsetta un rossetto prelevato da un banco di vendita e percio' "dopo che quest'ultima ebbe superato la linea delle casse", la sorvegliante "la invito' a seguirla in altro locale del supermercato per i necessari controlli". I controlli però diedero esito negativo e l'immigrata veniva trattenuta nel supermercato in attesa dell'arrivo della polizia mai convocata. Il giudizio di primo grado si concludeva con una sentenza di assoluzione, mentre in grado d'appello la sorvegliante veniva condannata per il reato di sequestro di persona in quanto, in assenza di refurtiva, la donna era stata ingiustamente trattenuta nel supermercato. La nostra concittadina si era rivolta alla Cassazione sostenendo che il suo comportamento era finalizzato a indurre l'immigrata a confessare il reato. La Suprema Corte, ha respinto il ricorso evidenziando che la limitazione della liberta' fisica dell'immigrata non fu motivata. Nella motivazione si legge che "la manifestata volonta' di chiamare la polizia, effettuata dopo l'esito negativo dei controlli, o meglio l'invito ad attendere l'arrivo della polizia, mai in realta' sollecitato, se appare irrilevante per un cittadino italiano che non si sia macchiato di alcun reato, potrebbe costituire minaccia se e' rivolto nei confronti di un cittadino extracomunitario". La Corte spiega inoltre che l'esito negativo dei controlli avrebbe dovuto consigliare alla sorvegliante "un atteggiamento diverso non essendovi piu' alcun motivo per trattenere" l'immigrata nei locali del supermercato. Sarà ora un'altra sezione della Corte d'Appello a riesaminare il caso per verificare se sussista anche l'ipotesi di violenza privata nei confronti della donna costretta "a confessare il preteso e presumibilmente inesistente furto".

Jurislab - L’ultima pagina in tema di danno esistenziale

Jurislab - L’ultima pagina in tema di danno esistenziale

L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.2059 c.c., va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno, ma, soprattutto, come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, tenendo presente che esiste un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. Quest'ultimo comprende ill danno biologico in senso stretto, configurabile solo quando vi sia una lesione dell'integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica, del danno morale soggettivo, come tradizionalmente inteso, il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d'animo, nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.

Coltivare la marijuana in casa non è un reato secondo il tribunale di Cagliari - myTAG

Coltivare la marijuana in casa non è un reato secondo il tribunale di Cagliari - myTAG

Coltivare piantine di marijuana nel terrazzo della propria casa non è reato se si dimostra che essa serve a soddisfare le esigenze personali di consumo di stupefacenti.

Il Tribunale di Cagliari ha assolto così un giovane che era stato denunciato dai Carabinieri lo scorso agosto, perchè, a seguito della perquisizione della sua abitazione, erano state trovate due piante di marijuana. L'imputato, giudicato col rito abbreviato, è stato assolto perché il fatto non sussiste.

Il giovane, difeso dall'avvocato Giovanni Battista Gallus, e' stato assolto dall'accusa di coltivazione di droga. Il legale dell'imputato si e' rifatto alla giurisprudenza della Cassazione che nel maggio scorso ha distinto la coltivazione estensiva, e quindi per lo smercio, da quella pura e semplice, e dunque per uso personale.

Una sentenza analoga era stata emessa, sempre a Cagliari, nel giugno scorso. Inoltre il Tribunale del Riesame di Cagliari nel 2000 aveva emesso un provvedimento dello stesso tenore giuridico.

Se tutto questo avrà un seguito, come potrebbe accadere dato che una sentenza della Cassazione può creare un precedente utile in materia, per l'orientamento futuro dei giudici, staremo a vedere.

Di certo la vicenda è importante, perché da ora in poi, di volta in volta, in teoria dovrebbe toccare al giudice valutare se una coltivazione, per le sue caratteristiche e la sua estensione, rientri nel concetto di piantagione illecita oppure no.

CONSULTA: GASPARRI A PROCESSO PER DIFFAMAZIONE GIP FORLEO | Politica | ALICE Notizie

CONSULTA: GASPARRI A PROCESSO PER DIFFAMAZIONE GIP FORLEO | Politica | ALICE Notizie

Roma, 21 feb. (Apcom) - Il deputato di An Maurizio Gasparri può essere processato per diffamazione nei confronti del gip di Milano Clementina Forleo. La Corte costituzionale ha annullato, infatti, la delibera con cui un anno fa la Camera aveva dichiarato insindacabili le sue opinioni, ritenendo che fossero espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari. "Non spettava alla Camera affermare che i fatti per i quali pende un procedimento penale a carico del deputato Maurizio Gasparri (...) costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni", ha sentenziato la Consulta nella sentenza depositata oggi in cancelleria e redatta dal giudice Sabino Cassese.

Gasparri era finito sotto procedimento penale per aver "offeso la reputazione" del gip Forleo sostenendo che era "incredibile, sconcertante e allarmante, fuori da ogni schema razionale, basata su una scelta ideologica" la sua decisione di assolvere un gruppo di islamici accusati di terrorismo. Provvedimento di fronte al quale l'esponente di An aveva sollecitato al governo di intervenire con "norme che impediscano a giudici irresponsabili di lasciare a piede libero degli autentici terroristi".

A sollevare il conflitto di attribuzione nei confronti della Camera è stato, nel giugno del 2006, il gip di Roma: le parole di Gasparri, ha sostenuto, "non possono essere ricondotte" ad atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni di parlamentare e quindi tutelati dall'articolo 68 della Costituzione. E la Corte costituzionale accoglie il ricorso annullando la delibera di Montecitorio: "Non sono stati indicati - spiega - atti parlamentari tipici anteriori o contestuali alle dichiarazioni in esame, compiuti dallo stesso deputato, ai quali possano essere riferite le opinioni" in questione. Nè possono essere ritenute tali eventuali "dichiarazioni esterne", provenienti cioè da colleghi appartenenti allo stesso gruppo parlamentare: non esiste "una sorta di insindacabilità di gruppo", sostiene la Consulta.

SENTENZA N. 7946 UD. 31/01/2008 - DEPOSITO DEL 21/02/2008

Corte Suprema di Cassazione

Le Sezioni unite hanno confermato il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui è ricorribile per cassazione l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che rigetti l’opposizione al decreto con il quale il pubblico ministero abbia negato la restituzione delle cose in sequestro.

I. La prima questione di diritto, preliminare a tutte le altre, sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, a prescindere dalla particolarità della fattispecie concreta, si può sintetizzare in questi termini: se sia ricorribile per cassazione l’ordinanza emessa dal gip che rigetti l’opposizione al decreto del pubblico ministero che respinga la richiesta di restituzione di cose sequestrate (art. 263 comma 5 c.p.p.), essendosi delineato un contrasto in giurisprudenza - come segnalato nell’ordinanza di rimessione e, prima ancora, dall’Ufficio del Massimario all’indomani della sentenza della Sez. V 25 ottobre 2005, Verduci, Rv 233624 - sull’ammissibilità del ricorso.

Per la verità la giurisprudenza di questa Corte - mentre ha escluso la possibilità di esperire l’appello (Cass., Sez. VI, 10 gennaio 1995, n. 16, Frati, Rv. 200887) o la richiesta di riesame (così Cass., Sez. II, 26 giugno 1992, n. 3143, Palme, Rv. 193889; Id., Sez. I, 12 ottobre 1994, n. 4468, Turchetta, Rv. 200065; Id., Sez. VI, 10 febbraio 1995, Schreiner, in C.E.D. Cass., n. 201437), o l’incidente di esecuzione (Cass., Sez. II, 5 febbraio 1996, Di Rosa, in Giust. pen., 1997, III, 43; Id., Sez. III, 6 maggio 2000, Pm c. D’Ascoli, in C.E.D. Cass., n. 216992) - ha indicato pressoché costantemente il ricorso per cassazione come unico rimedio previsto dall’ordinamento contro la decisione del gip, sul rilievo che il giudizio di opposizione, regolato dall’art. 263 comma 5 c.p.p., “è un vero e proprio giudizio di impugnazione... onde, per la tipicità dei rimedi, non è dato derogare alle previsioni di legge” (così Cass., Sez. I, 12 ottobre 1994, Turchetta, cit. Ma, a favore della ricorribilità, vedi anche, oltre le sentenze richiamate, Cass., Sez. III, 3 marzo 1992, n. 414, Bolognini, Rv. 190480; Id., Sez. V, 8 gennaio 1996, n. 18, Telleri, Rv. 204475; e, da ultimo, Cass., Sez. II, 22 febbraio 2007, n. 8423, Valenti, Rv. 235844).

La giurisprudenza è infatti schierata da tempo nel senso che l’ordinanza del gip, emessa nel rispetto delle forme stabilite dall’art. 127 c.p.p. come statuisce l’art. 263 comma 5, sia impugnabile con ricorso per cassazione indipendentemente dalla mancata previsione esplicita di questo mezzo di impugnazione nella norma di rinvio, osservandosi che il richiamo alla norma dell’art. 127 comporta la ricezione totale e completa del modello processuale descritto da essa, compresa la possibilità riconosciuta agli interessati di proporre impugnazione mediante ricorso per cassazione, come dispone il comma 7.

L’unica voce discorde è quella, isolata, della sentenza Verduci, la quale, trascurando l’orientamento costante di questa Corte al punto da non prenderlo neppure in considerazione per censurarlo, ritiene inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza pronunciata dal gip ai sensi dell’art. 263 comma 5 c.p.p. in tema di restituzione di beni sequestrati perché contro questa decisione “non è ammesso alcun mezzo di impugnazione”, in quanto “detta norma fa riferimento all’art. 127 c.p.p. con riguardo alla procedura da osservarsi per la decisione, ma non anche per ciò che attiene all’impugnazione di quest’ultima”.

E’ opportuno riportare al riguardo la motivazione della sentenza Telleri che - riprendendo un’affermazione più volte ribadita nella giurisprudenza di questa Corte sia pure in relazione a istituti diversi, come la proroga del termine di chiusura delle indagini preliminari (Cass., Sez. VI, 28 ottobre 1991, n. 3484, Parigi ed altri, Rv. 189050) e l’archiviazione (Cass., Sez. V, 8 giugno 1999, n. 2792, PM in proc. Puzzello, Rv. 214235) - esclude che esista un principio generale per il quale tutte le volte che si adotta il modello procedimentale regolato dall’art. 127 c.p.p. in virtù del rinvio contenuto in una norma (una delle quali è proprio quella dell’art. 263 comma 5), il provvedimento finale del procedimento sia sempre ricorribile per cassazione in forza della disposizione di cui al comma 7 della norma richiamata. Una regola di questo tipo, precisa la sentenza Telleri, “sarebbe inspiegabile con riferimento a quelle disposizioni che, prevedendo la procedura camerale di cui all’art. 127, stabiliscono espressamente la ricorribilità in cassazione del relativo provvedimento definitorio”. Nella motivazione si precisa poi che “non è decisiva la mancata esplicita previsione del ricorso nella norma che richiama la procedura camerale, in quanto il problema ha una duplice prospettazione che incide, non sulla impugnabilità oggettiva del provvedimento, ma sui motivi del ricorso e sui limiti di cognizione del giudice di legittimità”. La mancata previsione del ricorso per cassazione nel caso regolato dall’art. 263 comma 5 c.p.p. - é questo il succo della decisione - non esclude che tale ricorso possa essere proposto, dovendosi desumere la ricorribilità dell’ordinanza del gip da evidenti ragioni di garanzia, dato che il provvedimento de quo non può certamente considerarsi ricompreso né nella categoria delle sentenze, né in quella dei provvedimenti sulla libertà personale, contro i quali è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 111 comma 7 Cost.). Esso incide infatti su situazioni giuridiche soggettive bisognose di tutela (cfr. Cass., Sez. V, 3 marzo 1992, n. 414, Bolognini, cit.).

La sentenza Telleri sembra dare per scontate, sia pure in estrema sintesi e senza soffermarsi più di tanto sul suo contenuto di fondo, le linee argomentative della sentenza delle Sezioni Unite Bernini (6 novembre 1992, n. 17, Rv. 191786), chiamate a pronunciarsi sul radicato contrasto giurisprudenziale in ordine alla ricorribilità del provvedimento di proroga della durata delle indagini preliminari (art. 406 commi 5 e 6 c.p.p.). Le Sezioni Unite hanno fornito un contributo rilevante e per più versi decisivo alla soluzione del problema di carattere generale della ricorribilità o meno delle ordinanze emesse dal gip all’esito di un’udienza camerale disposta con le forme previste dall’art. 127 c.p.p., espressamente richiamato dalla norma di rinvio, quando manchi l’espressa previsione della proponibilità del ricorso in sede di legittimità. Sia pure con riferimento al problema specifico della richiesta di proroga delle indagini preliminari, le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla mancata correlazione tra il richiamo al modus procedendi di cui all’art. 127 e la mancata previsione di un mezzo di impugnazione avverso il provvedimento finale; e, per superare il non facile empasse nel percorso argomentativo, hanno operato una ricognizione completa delle fattispecie codicistiche in cui viene richiamato il procedimento camerale previsto dall’art. 127 c.p.p., concludendo che, salvo disposizioni contrarie, il ricorso è tendenzialmente inammissibile quando in queste viene fatto mero richiamo alle “forme previste dall’art. 127 (o altre equivalenti come “secondo le forme”, “con le forme”, osservando “le forme”) ed è, invece, legittimo quando viene operato un rinvio recettizio con la diversa espressione “a norma dell’art. 127“, come nel caso previsto dal comma 5 dell’art. 263.

In nessuna parte dell’art. 263 c.p.p. è contemplato in modo espresso il ricorso per cassazione, la cui esperibilità, ineludibile per evidenti ragioni di garanzia, deve essere dunque desunta dall’espressione “a norma dell’art. 127”, che è, di sicuro, diversa e più ampia, sotto il profilo lessicale, di quelle locuzioni che in varia guisa rinviano alle sole “forme” dello stesso articolo, così da ricomprendere anche il rimedio previsto dal comma 7 ed agire in combinato disposto tra loro.

La sentenza Bernini fa rilevare che, l’importanza di questo dato testuale non è scalfita neppure dalla diversa terminologia usata in tema di restituzione di beni sequestrati, quale emerge tra i commi 2 e 5 dell’art. 263 e la procedura camerale espressamente richiamata in entrambi dell’art. 127 c.p.p., essendo intesa a garantire il rispetto del contraddittorio, la cui violazione costituisce una nullità ai sensi del comma 5 dell’art. 127, denunciabile con ricorso per cassazione in forza del successivo comma 7 (Cass., Sez. I, 11 ottobre 1995, Coppola, in C.E.D. Cass., n. 202503; Id., Sez. V, 26 febbraio 1992, in Giur. it., 1992, II, 468; Id., Sez. III, 22 ottobre 1993, Bongiorno, in C.E.D. Cass., n. 196932).

L’art. 263 prevede infatti al suo interno due differenti rinvii all’art. 127 c.p.p., che contiene la disciplina dei procedimenti in camera di consiglio: il primo, al comma 2, regola l’ipotesi delle cose sequestrate presso un terzo, disponendo che “la restituzione non può essere ordinata a favore di altri senza che il terzo sia sentito in camera di consiglio con le forme previste dall’art. 127”; il secondo, al comma 5, si riferisce all’opposizione proposta contro il decreto del PM che dispone la restituzione o respinge la relativa istanza sulla quale il giudice provvede a norma dell’art. 127.

Le Sezioni Unite Bernini spiegano l’anomalia della presenza nello stesso art. 263 di due differenti modalità di rinvio, osservando che “nel contesto dell’art. 263, il richiamo dell’art. 127 non è isolato, poiché il quinto comma, in tema di opposizione contro il decreto emesso dal PM durante le indagini preliminari, contiene un altro rinvio alla medesima norma espresso con la più ampia formula “a norma dell’art. 127”. La presenza di questo ulteriore elemento testuale - prosegue la sentenza - non può non riflettersi - considerata l’identità sostanziale del contenuto dei due provvedimenti contemplati nel secondo e nel quinto comma, entrambi incidenti su diritti soggettivi privati [diritto di proprietà] - sul significato del primo rinvio “con le forme previste dall’art. 127” nel senso di attribuirgli una portata più ampia di quella propria della medesima espressione contenuta in altre norme (come, per esempio, in quella dell’art. 406 comma 5 c.p.p., relativa alla proroga delle indagini preliminari). A conferma e riprova che “nel sistema del codice il regime delle impugnazioni si connette allo specifico contenuto del singolo tipo di provvedimento di volta in volta considerato, che il legislatore reputa, anche alla stregua dei principi costituzionali, come suscettibile o meno di gravame” (ivi).

In entrambi i rinvii previsti dall’art. 263 si è in presenza di provvedimenti destinati a incidere su diritti soggettivi identici che, come ha evidenziato un’attenta dottrina, nonostante siano formulati in modo diverso, letti contestualmente, consentono in ambedue le ipotesi il ricorso per cassazione del relativo provvedimento definitorio. Ne deriva che l’art. 263 comma 2, secondo il quale il provvedimento del giudice sulla restituzione delle cose sequestrate presso un terzo deve essere adottato “con le forme previste dall’art. 127”, non per questo si sottrae al ricorso per cassazione, ritenuto del resto già ammissibile da questa Corte (cfr. Cass., Sez. V, 3 marzo 1992, Bolognini, cit.) e dalla stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (in G.U. del 24 ottobre 1988, n. 250, serie speciale, supplemento ordinario n. 2, p. 69, dove viene precisato, proprio limitatamente all’art. 263 comma 2, che in questo caso, oltre al rispetto delle forme previste dall’art. 127, è anche prevista l’impugnabilità dell’ordinanza conclusiva del procedimento).

In altre norme, questa esigenza interpretativa non è avvertita e si deve quindi ritenere che il semplice richiamo alle “forme”, non accompagnato dalla previsione dell’esplicita ricorribilità in cassazione, preveda esclusivamente il rispetto delle garanzie procedurali, ma non anche l’impugnabilità del provvedimento conclusivo.

Si deve dunque ribadire l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa dal gip che rigetti l’opposizione al decreto del pubblico ministero che respinge la richiesta di restituzione di cose sequestrate (art. 263 comma 5 c.p.p.), confermando l’orientamento nettamente maggioritario espresso dalla giurisprudenza di legittimità in proposito.

II. Ciò posto, è pacifico che la posizione processuale di Vitale Diego al quale venne sequestrata la somma di denaro a diverso titolo sia dall’Autorità giudiziaria di Arezzo che da quella di Napoli non risulta essere stata ancora definita né con un provvedimento di archiviazione per morte del reo né con un provvedimento di altra natura: il che consente di non tener conto di quanto viene affermato apoditticamente (ed erroneamente) nell’ordinanza impugnata (sulla scia di quanto già evidenziato nel decreto di rigetto dell’istanza di restituzione del denaro proposta dalla Eboli emesso dal PM il 13 giugno 2006), in cui si fa esplicito riferimento a un “provvedimento di confisca, disposto contestualmente ad archiviazione per morte del reo, di somma di denaro sequestrata come prezzo del reato”. E’ altrettanto pacifico che il sequestro a fini probatori originariamente disposto dalla Autorità giudiziaria di Arezzo è stato convertito in sequestro a fini preventivi dal gip presso il tribunale di Napoli con ordinanza del 2 febbraio 2007.

La Eboli ha proposto istanza di restituzione della somma di denaro sequestrata al marito defunto quando la stessa risultava soggetta a sequestro probatorio, ma in data successiva la stessa somma è stata soggetta a sequestro preventivo.

Nessun dubbio, naturalmente, sulla possibilità di sottoporre a sequestro preventivo un bene già soggetto a sequestro probatorio, quando sussiste il pericolo concreto ed attuale della cessazione del vincolo di indisponibilità impresso da quest’ultimo, che renda reale e non solo presunta la possibilità della riconduzione del bene nella sfera di chi potrebbe servirsene in contrasto con le esigenze protette dall’art. 321 c.p.p. Le Sezioni Unite di questa Corte, risolvendo i contrasti giurisprudenziali insorti in materia, hanno rilevato che l’utilità di un tale cumulo è confermata dal fatto che potrebbe altrimenti verificarsi uno iato tra il momento in cui avviene il sequestro probatorio e quello dell’adozione del sequestro preventivo, tale da pregiudicare in alcune ipotesi gli obiettivi della misura preventiva (14 dicembre 1994, Adelio).

Ne deriva che, a parte il delinearsi di un profilo di inammissibilità dell’odierno ricorso in quanto proposto dal difensore di una parte privata (prossimo congiunto jure hereditario) non munito di procura speciale come richiede espressamente l’art. 100 co. 1 c.p.p. e tenuto conto dell’esplicito disposto dell’art. 262 co. 3 dello stesso codice (“Non si fa luogo alla restituzione e il sequestro è mantenuto ai fini preventivi quando il giudice provvede a norma dell’art. 321”), la Eboli non ha alcuna pratica utilità a coltivare l’impugnazione proposta ex art. 263 co. 5 c.p.p. per sopravvenuta carenza di interesse. Il che rende inutile affrontare il ventaglio delle altre questioni sottoposte all’attenzione di queste Sezioni Unite.

Essendo venuto meno qualunque apprezzabile e concreto interesse a conseguire un effetto pratico più vantaggioso attraverso l’invocata modifica o eliminazione del provvedimento impugnato e non potendosi muovere al ricorrente alcun addebito per la sopravvenuta carenza di interesse a coltivare l’impugnazione, alla declaratoria di inammissibilità del ricorso non segue la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

P. Q. M.

Visti gli artt. 606, 616 c.p.p.
d i c h i a r a
il ricorso inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Adnkronos - Ign - Capo scurrile con i dipendenti: va licenziato

Adnkronos - Ign - Capo scurrile con i dipendenti: va licenziato

Roma, 21 feb. (Adnkronos) - Va licenziato il capo che si comporta in modo "scurrile e triviale" nei confronti dei suoi dipendenti. Lo sottolinea la Cassazione che mette nero su bianco come chi ricopre alte gerarchie ha il dovere di controllare anche il linguaggio con cui si rivolge ai propri sottoposti. Diversamente anche il "carattere rozzo ed eccessivo delle espressioni "utilizzate ferisce "la dignità e l'amor proprio" del personale. Da qui la legittimità del licenziamento.

Applicando questo principio la sezione Lavoro della Cassazione ha reso definitivo il licenziamento nei confronti di Michele D., gestore di una macelleria del supermercato Standa di Milano, colpevole di essersi rivolto a tre dipendenti sue sottoposte "in violazione dei principi di civiltà". In particolare, ricostruisce la sentenza 4067, Michele D. "aveva usato nei confronti delle tre addette al suo reparto espressioni scurrili" del tipo "bastarde, toglietevi dai c... , io qui non vi voglio, vi faccio licenziare tutte e tre, andate a lavorare altrimenti vi faccio un c... così".

Il caso è finito in un'aula di giustizia e se il Tribunale milanese aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa di Michele D. in quanto, a detta del giudice, l'uomo non aveva fatto altro che esercitare il proprio potere gerarchico, la Corte d'Appello di Milano, nel novembre 2005, aveva ritenuto giusta la causa del licenziamento, essendo a carico del capo "l'obbligo di tutela della personalità morale dei dipendenti". Inutilmente Michele D. ha protestato in Cassazione, sostenendo a sua discolpa di non aver fatto altro che esercitare il proprio potere e di essere incensurato.

La Suprema Corte ha bocciato il ricorso e, sposando in pieno il giudizio della Corte d'Appello, ha sottolineato che "tale condotta non poteva certo ritenersi giustificata dall'esercizio del potere gerarchico". Piazza Cavour ha ricordato che per "quanto l'ambiente di lavoro possa essere informale, nel comportamento e nel lessico usato non ci si può spingere fino alle maniere rozze ed eccessive e ad usare la voce alta per richiamare i dipendenti ad una più esatta osservanza delle loro obbligazioni".

Più in generale la Cassazione ricorda che "il datore di lavoro non puo' consentire situazioni di sopraffazione o violenze, fisiche o verbali essendo a suo carico l'obbligo di tutela anche della personalità morale dei dipendenti". Nessuno sconto poi è ammesso se chi sta ai piani alti non ha "precedenti sanzioni disciplinari". Da qui la conferma del licenziamento del capo della macelleria condannato a pagare 2.000 euro di onorari oltre alle spese processuali.

20 febbraio 2008

AGI News On - STRAGE LINATE: "ANNULLARE LE ASSOLUZIONI"

AGI News On - STRAGE LINATE: "ANNULLARE LE ASSOLUZIONI"

Annullare le assoluzioni pronunciate nei confronti dei funzionari Enac vincenzo Fusco, allora direttore dell'aeroporto di Linate, e di Francesco Federico, responsabile per gli scali milanesi, e disporre un nuovo processo d'appello. E' la richiesta principale del sostituto procuratore generale della Cassazione, Angelo Di Popolo, davanti alla quarta sezione penale della suprema corte, chiamata a pronunciarsi in merito al processo sul disastro aereo di Linate nel quale, l'8 ottobre del 2001 persero la vita 118 persone. Il Pg, dunque, nella sua requisitoria letta questa pomeriggio, ha sollecitato l'accoglimento del ricorso della procura di Milano contro la sentenza pronunciata il 7 luglio del 2006 dalla corte d'Appello del capoluogo lombardo. Per Di Popolo, pero', va confermata la condanna a tre anni del controllore di volo Paolo Zacchetti, per il quale la procura generale di Milano aveva chiesto una pena piu' severa. Il Pg di cassazione, inoltre, ha chiesto di confermare le condanne di Fabio Marzocca ex direttore generale Enav (4 anni e 4 mesi di reclusione) e dei dirigenti Sea Antonio Cavanna e Giovanni Grecchi (tre anni). Infine, Di Popolo ha chiesto l'annullamento con rinvio della condanna a sei anni e sei mesi inflitta a Sandro Gualano ex amministratore delegato di Enav: secondo il Pg infatti, la corte d'appello deve rideterminare la pena a carico dell'imputato, infliggendogli una condanna piu' mite. Tutti gli imputati sono accusati di omicidio colposo plurimo e disastro colposo. Nell'udienza di oggi erano presenti diversi familiari delle vittime, riunitisi in un comitato guidati da Paolo Pettinaroli, che nell'incidente perse un figlio. E' voluto essere presente in Cassazione anche l'unico superstite della strage, Pasquale Padovano. (AGI) - Roma, 19 febbraio -

Rignano, parla una bambina "Maestre cattive? Lo disse mamma" - cronaca - Repubblica.it

Rignano, parla una bambina "Maestre cattive? Lo disse mamma" - cronaca - Repubblica.it

ROMA - Il disarmante racconto di una bambina di 5 anni rischia di far traballare il quadro accusatorio dell'inchiesta sull'asilo dei presunti orrori di Rignano Flaminio: "Le maestre sono cattive perchè dicevano cose brutte ai bambini...", racconta la piccola. "Me lo ha detto la mamma... Io non c'ero alle gite con i compagni... Alla mamma l'ha detto un'altra mamma di un bambino".

Si parlò di "bocciatura dell'impianto accusatorio" già una volta, il 10 maggio dello scorso anno, quando il tribunale del riesame ordinò la scarcerazione dei sette inquisiti: quattro maestre, il marito di una di loro, una bidella e un benzinaio cingalese.

Ora ci sono la parole della bambina che pesano come macigni sulla teoria della procura. Interrogata dal giudice attraverso la mediazione di una neuropsichiatra infantile, in un'atmosfera di familiarità, tra giocattoli e libri colorati, la piccola ha parlato di "maestre cattive che dicevano cose brutte ai bambini", ma ha ammesso che a suggerirle certe cose è stata sua madre. La bimba, una dei 19 minori ritenuti sessualmente abusati, ha negato di aver partecipato alle "gite scolastiche" come gli scolaretti chiamano i trasferimenti dalla scuola alla casa di una delle maestre dove sarebbero avvenute le violenze: "Delle gite, ne ho solo sentito parlare dai miei compagni di scuola".

La dichiarazione della bambina, ritenuta da in un precedente esame, un teste valido, alimenta i sospetti nutriti fin da subito dai legali degli indagati: "Si conferma quello che andiamo dicendo da un anno e mezzo", ha osservato l'avvocato Giosuè Naso, difensore della maestra Silvana Magalotti. "Questo processo è basato sulla suggestione evocata da uno o due genitori. Genitori - ha aggiunto - che non hanno saputo elaborare con equilibrio e maturità alcuni segnali di disagio manifestati dai loro piccoli". Dello stesso tenore anche le parole dell'avvocato Domenico Naccari, difensore di un altro indagato, il cingalese Khelum Weramuni Da Silva: "La testimonianza della bambina, conferma l'inconsistenza del quadro accusatorio".

(19 febbraio 2008)

Cpt: Bettoli assolto con formula piena | Cooperativa Itaca onlus

Cpt: Bettoli assolto con formula piena | Cooperativa Itaca onlus

Lunedì 18 febbraio si è concluso, presso il Tribunale di Udine, il primo dei processi nei confronti di esponenti di Legacoopsociali del Friuli Venezia Giulia nati dalle denuncie di Adriano Ruchini, presidente della Coop Minerva di Gorizia, il soggetto gestore nei due anni passati del Cpt di Gradisca d’Isonzo (proprio in questi giorni è stato reso noto il cambio di gestione della struttura di detenzione di stranieri).
Il processo è stato quello per "minacce di morte aggravate" che ha visto come imputato il presidente di Legacoopsociali Fvg, Gian Luigi Bettoli, cooperatore, ricercatore storico ed esponente dei movimenti pacifisti e nonviolenti, con un lungo curriculum di volontariato a favore delle popolazioni colpite dalla guerra (in Bosnia Erzegovina, in Palestina e nel Messico) e dalle catastrofi "naturali", come nell’Irpinia degli anni ‘80.


L’attesa sentenza ha finalmente assolto Bettoli (difeso dalle avvocate Giulia Bevilacqua e Teresa Fini, del Foro di Pordenone) con formula piena, perché il fatto non costituisce reato. Il querelante aveva annunciato, ad inizio seduta, di aver rimesso la querela. Bettoli ha però rifiutato decisamente questo "pentimento" tardivo, sia per l’insostenibilità di un’accusa calunniosa (per la quale ha controquerelato Ruchini, che a questo punto si troverà a salire sul banco degli imputati), sia per il fatto - ancor più grave - che Ruchini stesso sta proseguendo in una causa contro l’intera associazione Legacoopsociali Friuli Venezia Giulia per diffamazione.
La conclusione positiva del processo ha così potuto rendere giustizia con la formula piena alle tesi difensive del dirigente cooperativo e pacifista, portato sul banco degli imputati per il suo essere il portavoce del rifiuto delle cooperative sociali friulo-giuliane di partecipare alla gestione di quella che ritengono un’ "istituzione totale" nella quale vengono segregate persone innocenti per il solo fatto di essere straniere.
Ci auguriamo oggi di poter assistere presto all’archiviazione anche della denuncia nei confronti dell’associazione, accusata di diffamazione solo per aver denunciato l’atteggiamento disinvolto di una cooperativa che ha non solo violato norme del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, ma più in generale ha creduto di aderire a Legacoop senza preoccuparsi delle scelte politiche ed etiche di un’associazione di
aziende responsabili, socialmente coinvolte e motivate all’autogestione ed al lavoro sociale, secondo la disposizione di legge che vincola la cooperazione sociale a "perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini".

Per altro, l’udienza di ieri è stata purtroppo l’occasione per il soliloquio di Adriano Ruchini, impegnato ad accusare mezzo mondo di persecuzione nei suoi confronti. Lasciando a Ruchini la responsabilità di ulteriori affermazioni calunniose nei confronti di vari soggetti, non può essere sottaciuto il livore che lo stesso ha dimostrato nei confronti dell’imputato. Dimostrando così la gelosia piccina del piccolo imprenditore di provincia nei confronti di chi - pur continuando a percepire una retribuzione da cooperatore e dedicando le sue preoccupazioni soprattutto all’attività culturale ed alla solidarietà sociale ed internazionale - ha avuto il raro privilegio di passare per la gestione manageriale di gruppi cooperativi che rappresentano, con migliaia di soci lavoratori, alcune fra le principali realtà nazionali del settore e fra le maggiori aziende regionali.
Un’ultima considerazione, a carattere personale. Nel processo sono giustamente state fatte cadere le aggravanti, per il non essere mai stato Bettoli un associato del movimento dei Disobbedienti. Rimane la necessità di precisare che i Disobbedienti sono un movimento politico, dal quale Bettoli - per il suo essere un marxista nonviolento - è distante, ma del quale ritiene pienamente legittima l’attività, e più di
una volta condivisibili le proposte, pur ritenendone talvolta discutibili i metodi. Ritenendo inoltre i suoi leader, come Luca Casarini, persone di cui non condivide spesso lo stile ed il discorso, ma che hanno l’indubitabile merito storico di aver portato sul terreno della politica settori che in un lontano passato erano votati alla ghettizzazione di un ribellismo senza sbocco.

Una lezione, comunque, dovrebbe derivare dal processo di lunedì scorso e dalla sentenza di assoluzione per Bettoli: la necessità di liberare le aule della giustizia da pratiche strumentali di utilizzo delle denunce e delle querele per altri scopi. Ritornando a lasciare alla politica il suo spazio e le sue responsabilità, ed evitando di usare il ricorso alla magistratura come strumento di compressione della libertà di espressione e di critica.

Gorizia Oggi: Foto del Cpt: Tommasini assolto

Gorizia Oggi: Foto del Cpt: Tommasini assolto

Il sindaco Franco Tommasini è stato assolto dall'accusa di diffusione di fotografie, ritenute segreto di Stato, del Cpt di Gradisca quando era in costruzione. Alla seconda udienza davanti al Gup del Tribunale di Gorizia, è stata la stessa Procura a chiedere il prosciolgimento degli indagati "per assenza di elementi per un loro eventuale rinvio a giudizio". Il Gup ha accolto la richiesta. Secondo l'avvocato del sindaco Tommasini, Lorenzo Presot, "la decisione della Procura è arrivata dopo che si è accertato che i documenti diffusi dal sindaco, e poi divulgati dai militanti no global, erano non solo di comune dominio, ma inviati da un ufficio di Roma come normale documentazione".

G8/ PER BOLZANETO SI RICOMINCIA | Cronaca | ALICE Notizie

G8/ PER BOLZANETO SI RICOMINCIA | Cronaca | ALICE Notizie

Genova, 20 feb. (Apcom) - Se ne erano perse le tracce. Causa la prolungata malattia di uno dei giudici a latere del processo per i fatti di Bolzaneto, accaduti durante il G8 del luglio 2001 a Genova, non se ne era più saputo nulla.

Ora grazie alla nuova tabella di udienze messa a punto dal presidente del tribunale Renato Delucchi il processo di Bolzaneto ricomincia. Da venerdì prossimo infatti i Pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati concluderanno i loro interventi iniziati lo scorso dicembre e mai finiti. Con le risposte della difesa Delucchi ha calendarizzato la fine delle requisitorie per il 10 marzo. L'ultima udienza è già stata fissata per il 20 maggio.

Questo significa però che comunque alcune prescrizioni andranno in porto. Infatti dei reati presi in considerazione molti prevedono la prescrizione di sette anni e mezzo dai fatti. E' da ricordare che nel processo di Bolzaneto sono imputati 45 tutori dell'ordine accusati tra l'altro di falso, violenza privata, abuso dell'autorità, abuso d'ufficio e altri reati minori. Le parti civili sono ben 209. Il processo era iniziato il 12 ottobre 2006. Adesso la sentenza è attesa per i primi di giugno.

15 febbraio 2008

Cassazione: dare del selvaggio a un marocchino fa scattare la condanna per razzismo

Cassazione: dare del selvaggio a un marocchino fa scattare la condanna per razzismo

Nel dare del selvaggio a un marocchino ''si adombrano gli estremi dell'aggravante della finalita' di discriminazione razziale, emergenti dalle connotazioni stesse della condotta descritta nei capi d'accusa''. E' quanto emerge da una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 5302/2008) che ha disposto il processo nei confronti di una donna che rivolgendosi a un marocchino gli aveva detto: ''questi marocchini fanno quello che gli pare... Siete selvaggi''. La donna era stata graziata dal Giudice di Pace a seguito dell'intervenuta remissione della querela. Il procuratore generale presso la Corte di Appello di Ancona si è rivolto alla Cassazione sostenendo che per reati che hanno finalita' di discriminazione razziale si puo' procedere d'ufficio e la competenza e' del Tribunale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso ritenendolo fondato.

Incendio campo nomadi, un prosciolto 8 a giudizio

RadioLombardia - la radio della tua città

Opera (Mi): incendio campo nomadi, un prosciolto 8 a giudizio
Il gup di Milano Marco Maria Alma ha prosciolto il capogruppo della Lega Nord nel consiglio comunale di Opera (Milano), Ettore Fusco, per il rogo avvenuto il 21 dicembre 2006 nel campo nomadi allestito dalla protezione
civile, mentre ha rinviato a giudizio altre otto persone.
Si tratta di alcuni cittadini del centro alle porte di
Milano, accusati a vario titolo di concorso in danneggiamento
aggravato, incendio e interruzione di pubblico servizio. Fusco
era invece accusato di istigazione a delinquere.
Nell'incendio, scoppiato durante un presidio non autorizzato
davanti al campo, erano state bruciate sei tende, mentre altre
sette erano state divelte, e qualche auto della protezione
civile era stata danneggiata.
l capogruppo della Lega Nord al Consiglio comunale di Opera
quella sera era intervenuto in aula nel corso della discussione
sulla ratifica dell'accordo tra il Comune stesso e quello di
Milano sulla destinazione dell'area in cui era stato allestito
il campo e, secondo l'accusa, avrebbe istigato pubblicamente i
presenti a commettere uno o più reati e in particolare all'
occupazione della tendopoli di Opera. Fusco è, però, stato
prosciolto.

Quotidiano Net - Presto in Italia il 'boia di Bolzano' Canada, via libera all'estradizione

Quotidiano Net - Presto in Italia il 'boia di Bolzano' Canada, via libera all'estradizione

Ottawa, 15 febbraio 2008 - Al via l'estradizione di Michael Misha Seifert, il 'boia di Bolzano'. Le autorità giudiziarie canadesi nelle prossime ore consegneranno l'ex criminale di guerra nazista nelle mani della polizia italiana. Funzionari dell'Interpol di Roma, accompagnati da un medico giunto appositamente dall'Italia, notificheranno a Seifert l'atto di estradizione e lo prenderanno in consegna.



Un aereo trasporterà il «boia di Bolzano» a Roma, dove l'arrivo è previsto al massimo entro domenica. Successivamente, Seifert verrà trasferito in un carcere militare a disposizione della Procura militare di Verona.


L'estradizione di Seifert, 84 anni, in Canada dal 1951, residente da oltre mezzo secolo a Vancouver, nel British Columbia, è stata ordinata dopo che la Corte Suprema canadese ha respinto, il 17 gennaio scorso, l'ultima istanza d'appello presentata dai legali del famigerato 'Mischà, condannato all'ergastolo dalla giustizia italiana,sentenza passata in giudicato in Cassazione.


L'Italia aveva chiesto l'estradizione del "Boia di Bolzano" già dal novembre del 2000, quando il tribunale di Verona lo ha riconosciuto colpevole di crimini di guerra compiuti nel lager di via Resia a Bolzano e lo ha condannato all'ergastolo.



Il verdetto della Corte Suprema ha aperto così la strada all'estradizione. Dopo la decisione del massimo tribunale canadese, le opzioni legali in mano agli avvocati di Seifert erano sfumate.
Il suo difensore, Doug Christie, lo stesso legale che assunse una certa notorietà in Canada difendendo gli storici Ernst Zundel e Jim Keegstra, che negavano l'esistenza dell'Olocausto, era apparso scettico su possibili margini di manovra per evitare l'estradizione del "Boia di Bolzano".

"Devo valutare se siano possibili eventuali contromosse»" aveva annunciato l'avvocato Christie senza troppe speranze, dopo che in tutti i gradi di giudizio la richiesta di Seifert era stata bocciata.

A salutare positivamente il verdetto della Corte Suprema che dava semaforo verde all'estradizione di «Misha» in Italia era stato Bernie Farber, del Canadian Jewish Congress. "Credo - ha dichiarato - sia giunto il momento di estradare Seifert in Italia. Qui in Canada è passato attraverso tutti i gradi di giudizio, e la risposta è stata sempre la stessa".

Quotidiano Net - Presto in Italia il 'boia di Bolzano' Canada, via libera all'estradizione

Quotidiano Net - Presto in Italia il 'boia di Bolzano' Canada, via libera all'estradizione

Ottawa, 15 febbraio 2008 - Al via l'estradizione di Michael Misha Seifert, il 'boia di Bolzano'. Le autorità giudiziarie canadesi nelle prossime ore consegneranno l'ex criminale di guerra nazista nelle mani della polizia italiana. Funzionari dell'Interpol di Roma, accompagnati da un medico giunto appositamente dall'Italia, notificheranno a Seifert l'atto di estradizione e lo prenderanno in consegna.



Un aereo trasporterà il «boia di Bolzano» a Roma, dove l'arrivo è previsto al massimo entro domenica. Successivamente, Seifert verrà trasferito in un carcere militare a disposizione della Procura militare di Verona.


L'estradizione di Seifert, 84 anni, in Canada dal 1951, residente da oltre mezzo secolo a Vancouver, nel British Columbia, è stata ordinata dopo che la Corte Suprema canadese ha respinto, il 17 gennaio scorso, l'ultima istanza d'appello presentata dai legali del famigerato 'Mischà, condannato all'ergastolo dalla giustizia italiana,sentenza passata in giudicato in Cassazione.


L'Italia aveva chiesto l'estradizione del "Boia di Bolzano" già dal novembre del 2000, quando il tribunale di Verona lo ha riconosciuto colpevole di crimini di guerra compiuti nel lager di via Resia a Bolzano e lo ha condannato all'ergastolo.



Il verdetto della Corte Suprema ha aperto così la strada all'estradizione. Dopo la decisione del massimo tribunale canadese, le opzioni legali in mano agli avvocati di Seifert erano sfumate.
Il suo difensore, Doug Christie, lo stesso legale che assunse una certa notorietà in Canada difendendo gli storici Ernst Zundel e Jim Keegstra, che negavano l'esistenza dell'Olocausto, era apparso scettico su possibili margini di manovra per evitare l'estradizione del "Boia di Bolzano".

"Devo valutare se siano possibili eventuali contromosse»" aveva annunciato l'avvocato Christie senza troppe speranze, dopo che in tutti i gradi di giudizio la richiesta di Seifert era stata bocciata.

A salutare positivamente il verdetto della Corte Suprema che dava semaforo verde all'estradizione di «Misha» in Italia era stato Bernie Farber, del Canadian Jewish Congress. "Credo - ha dichiarato - sia giunto il momento di estradare Seifert in Italia. Qui in Canada è passato attraverso tutti i gradi di giudizio, e la risposta è stata sempre la stessa".

Commissione Mitrokhin, Mario Scaramella torna in libertà Corriere della Sera

Commissione Mitrokhin, Mario Scaramella torna in libertà Corriere della Sera

ROMA - Quattro anni di reclusione per le accuse di calunnia e traffico di armi. È la condanna inflitta, con patteggiamento, a Mario Scaramella, già consulente della commissione Mitrokhin e finito in carcere il 24 dicembre del 2006 all'aeroporto di Napoli mentre rientrava da Londra. La condanna gli è stata inflitta dal gup di Roma Marco Patarnello davanti al quale è stato difeso dagli avvocati Massimo Krogh e Sergio Rastrelli. A Scaramella il gup ha concesso l'immediata scarcerazione poichè gode dell'indulto. Con la sentenza , avendo scontato un anno e 4 mesi di carcere preventivo ha praticamente chiuso ogni pendenza con la giustizia.

PATTEGGIAMENTO ESTESO ANCHE ALLE ALTRE ACCUSE - I difensori di Scaramella hanno fatto poi istanza al pm Pietro Saviotti affinchè il patteggiamento comprenda anche le accuse riguardo il coinvolgimento dell’ex consulente nella vicenda del Parco del Vesuvio, che lo vede coinvolto per accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla truffa. Per questi fatti la pena dovrebbe essere "non superiore ai 6 mesi", hanno sottolineato i legali. E siccome Scaramella è stato in regime di custodia cautelare per 14 mesi, in virtù dell’indulto e della concessione delle attenuanti generiche, si può ritenere conclusa la vicenda giudiziaria riguardante Scaramella. L’ex consulente è stato al centro per alcune settimane, alla fine del 2006, del mistero riguardante l’uccisione per avvelenamento da polonio di Aleksander Litvinenko, avvenuto a Londra. Lui stesso, per un periodo, accusò di essere stato contaminato.

TRAFFICO D'ARMI - Rispetto al procedimento finito stamane, per l’accusa fu Scaramella a ideare e organizzare l’ingresso in Italia di due granate prive di detonatore trovate nell’ottobre del 2005 in un furgone su cui viaggiavano quattro ucraini poi processati e assolti a Teramo, essendo stati bloccati dalla polizia dalle parti di Mosciano Sant’Angelo. In base a quanto emerso, sarebbe stato proprio Scaramella (in passato anche giudice di pace di Ischia) a girare la segnalazione alla questura di Napoli per poi denunciare che quelle granate sarebbero dovute servire per un attentato ai danni dell’allora presidente della commissione parlamentare, Paolo Guzzanti. Scaramella probabilmente voleva apparire credibile agli occhi dell’organismo parlamentare. E pur conoscendone l’innocenza, accusò Talik, ex esponente del Kgb, di questo traffico di armi sostenendo che munizioni ed esplosivo sarebbero state utilizzate per colpire lui e il suo interprete di lingua russa Andrey Ganchev.


14 febbraio 2008

13 febbraio 2008

Omicidio Raciti: 2 anni e 6 mesi a Speziale Corriere della Sera

Omicidio Raciti: 2 anni e 6 mesi a Speziale Corriere della Sera

CATANIA - Il Tribunale per i minorenni di Catania ha condannato Antonino Speziale a due anni e sei mesi di reclusione per resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Speziela è indagato anche la morte dell'ispettore Filippo Raciti, ucciso negli scontri con i tifosi catanesi davanti allo stadio di Catania il 2 febbraio dello scorso anno. Il pm Angelo Busacca aveva chiesto tre anni e quattro mesi, ma i giudici hanno concesso le attenuanti generiche.

CAMBIAMENTO - Speziale, 17 anni all'epoca dei fatti, ha sempre ammesso di avere partecipato agli scontri, ma ha negato di avere colpito Raciti. Il presidente del tribuale, Francesca Pricoco, ha parlato del «cambiamento» registrato in Speziale: «C'è stata una presa di coscienza dell'accaduto. L'assistenza dei servizi sociali è stata fondamentale. Spero che questo abbia insegnato quali siano i valori fondamentali e il senso della legalità e il rispetto delle persone che applicano la legge e la fanno applicare». Poi rivolgendosi all'imputato: «La vera resistenza non è all'esterno, ma all'interno. Tu devi imparare a resistere a te stesso. L'augurio che ti facciamo è di migliorare la tua vita e le relazioni con gli altri». Speziale resterà agli arresti in comunità: il giudice non gli ha concesso la sospensione della pena. Nei sui confronti è pendente anche un ordine di arresto per l'omicidio di Raciti, ma il provvedimento non è esecutivo in quanto è stato presentato ricorso in Cassazione.

COMMENTI - La difesa di Speziale presenterà ricorso in appello, ma non la procura. Per il legale di Speziale «la pena è eccessiva, nonostante i giudici abbiano applicato le attenuanti generiche». «Noi che conosciamo nostro figlio riteniamo che la sentenza sia oltremodo pesante, ma rispettiamo la decisione dei giudici», ha commentato il padre Roberto Speziale. «Ci aspettavamo un condanna mite, perché il ragazzo ha fatto delle sciocchezze, ma dopo un anno di detenzione, tra carcere e comunità, pensava di potere tornare a casa». In occasione dell'anniversario della morte di Raciti, il 2 febbraio, la vedova Marisa Grasso aveva detto di «non perdonare».


12 febbraio 2008

Circolare con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo è reato contro la pubblica amministrazione « Studio Legale Mei & Calcaterra

Circolare con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo è reato contro la pubblica amministrazione « Studio Legale Mei & Calcaterra

I principi enunciati nella sentenza:
“- il custode e/o il proprietario sorpresi a circolare con un veicolo sottoposto a sequestro ai sensi dell’art. 213 c.s. rispondono sia dell’illecito amministrativo di cui al quarto comma della stessa disposizione sia del reato previsto dall’art. 334 c.p. (in relazione alle distinte ipotesi in esso disciplinate), dal momento che tale utilizzazione del bene presuppone per solito la sottrazione dello stesso al vincolo d’indisponibilità (impregiudicati casi marginali di oggettiva inoffensività della condotta o di assenza dell’elemento soggettivo) e può comportare, ove concretamente accertato, anche il deterioramento del bene medesimo;

- se a circolare con il veicolo sequestrato sia una terza persona: il custode sarà chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 334 co. 1 c.p., qualora abbia voluto favorire il proprietario, ovvero del reato di cui all’art. 335 c.p. se abbia colposamente agevolato la sottrazione del veicolo in sequestro; il proprietario-custode risponderà del reato di cui all’art. 334 co. 2 c.p. o, in caso di mera colpa, di quello di cui all’art. 335 c.p.;

- il terzo (non proprietario né custode) che circoli con il veicolo sequestrato risponde del solo illecito amministrativo, a meno che non abbia concorso nella sottrazione del bene, nel qual caso deve rispondere (quale extraneus) a titolo appunto di concorso nel reato

«Meredith non fu violentata»Le sue ultime ore in un dossier medico Corriere della Sera

«Meredith non fu violentata»Le sue ultime ore in un dossier medico Corriere della Sera

PERUGIA — Meredith Kercher «non subì violenza sessuale ». Il medico legale, che per primo esaminò il cadavere della giovane inglese uccisa a Perugia, ribadisce la tesi espressa dopo i primi accertamenti. Nella relazione che consegnerà questa mattina al pubblico ministero, il dottor Luca Lalli conferma che la ragazza ebbe un rapporto intimo, ma spiega di non poter stabilire se questo avvenne la stessa sera del delitto o il giorno precedente. Scarta invece l'ipotesi che ci sia stata una lunga agonia «perché dopo la coltellata c'è stata una forte emorragia». E sull'ora del delitto non si sbilancia: «Due o tre ore dopo l'ultimo pasto». Le conclusioni dello specialista lasciano intatti molti interrogativi. Dubbi che forse non si riuscirà a risolvere neanche il 19 aprile, quando saranno i periti nominati da accusa e difesa a dover rispondere in sede di incidente probatorio agli stessi quesiti: causa della morte, ora dell'omicidio, origine delle ecchimosi e delle ferite.

Sono gli elementi cardine del processo, su questo si basa la battaglia tra le parti. Perché è lo stesso Lalli a chiarire che «le tracce biologiche escludono che la vittima ebbe un rapporto completo, ma poi tocca agli investigatori accertare se sia stata costretta ». Una verifica che la Procura ritiene di aver già compiuto, visto che ai tre indagati — Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Rudy Hermann Guede — contesta proprio la violenza sessuale. Questa tesi è stata giudicata valida da due diversi collegi del tribunale del Riesame quando hanno sottolineato come, sotto la minaccia di «uno o più strumenti da taglio», i tre abbiano «dominato i tentativi di resistenza della giovane». Non appare affatto casuale che a Lalli il pubblico ministero Giuliano Mignini abbia deciso di affiancare altri due esperti. Sulle perizie si gioca l'esito del processo e la Procura sembra determinata a dimostrare che tutti gli indagati hanno avuto un ruolo determinante nell'omicidio.


Dunque si tenta di chiarire ogni aspetto, di fugare ogni dubbio. Fu Rudy a consumare il rapporto sessuale, lo ha ammesso lui stesso e le sue tracce sono rimaste nel corpo di Meredith. Ma l'ivoriano ha sempre detto che la ragazza era d'accordo, «abbiamo smesso soltanto perché non avevamo il preservativo». Negano invece Amanda e Raffaele, ma anche loro hanno lasciato tracce sulla scena del delitto e dunque dovranno spiegare che cosa davvero avvenne la sera del primo novembre. Per ricostruire le ultime ore di Meredith, fondamentali appaiono le testimonianze delle sue amiche. Perché per fissare il momento della morte è necessario sapere esattamente quando e che cosa mangiò la vittima. «Cucinammo la pizza e poi prendemmo il tiramisù » hanno affermato le inglesi che con Mez trascorsero il pomeriggio. «Erano circa le 19» hanno aggiunto. Sommando le due o tre ore di cui parla Lalli, si arriva a un arco temporale compreso tra le 21 e le 22, ampliato dallo stesso consulente fino alle 23. Ma chi può escludere che Meredith abbia mandato giù qualcosa anche dopo essere tornata a casa verso le 21? Altre verifiche dovranno essere compiute, ulteriori accertamenti svolti. «Anche questa nuova relazione — commentano i difensori di Sollecito Maori, Brusco e Berretti — esclude la violenza e questo non può che confortarci». Nessun commento arriva invece dal legale di Guede, Walter Biscotti «perché le carte vanno lette e poi esaminate».

Fiorenza Sarzanini
13 febbraio 2008

11 febbraio 2008

Calciopoli, il processo durerà anni Paparesta & C. ancora in sospeso - Spy calcio - Repubblica.it

Calciopoli, il processo durerà anni Paparesta & C. ancora in sospeso - Spy calcio - Repubblica.it

SE TUTTO va bene il dibattimento avrà inizio a fine anno, ma potrebbe anche slittare all'inizio del prossimo: è partito a rilento a Napoli il processo (penale) a Calciopoli-1, che può contare su 37 imputati di cui molti eccellenti (da Moggi a Bergamo, passando per Carraro e Giraudo). Qualcuno potrebbe anche chiedere il rito abbreviato, soprattutto chi ha davvero un ruolo marginale (come l'arbitro internazionale Rocchi, chissà perché è stato tirato in ballo) mentre non si sa ancora quanti avvocati faranno istanza di competenza territoriale. Per molti non è competente infatti Napoli ma Roma come sede di Figc e Aia: bisognerà vedere che ne pensa il tribunale. Il 18 marzo si saprà comunque chi sarà ammesso come parte lesa. Difficile che prima dell'estate possa concludersi la tornata delle udienze preliminari. Resta in sospeso la posizione di Gianluca Paparesta: non si sa ancora cosa vogliono fare i pm, se chiedere anche per lui il rinvio a giudizio o archiviare. Suo padre, Romeo, potrebbe invece essere denunciato per calunnia dal ds Mariano Fabiani, amico di Moggi (ma è una colpa essere amici di Moggi? Per qualcuno pare di sì...). Paparesta sr. infatti ha dichiarato, come persona informata sui fatti, di aver ricevuto da Moggi le famose schede sim (che poi imprestò, almeno in una paio di occasioni, al figlio) alla presenza anche di Fabiani. La posizione dell'ex ds del Messina si è aggravata, secondo i pm. In aprile intanto scadono le sospensioni cautelari di Paparesta, Bertini e Pieri: che farà l'Aia? Saranno reintegrati nei ranghi? Collina potrà utilizzarli in campionato? Improbabile. Procede con lentezza inoltre l'inchiesta della superprocura Figc, anche perché a Stefano Palazzi e ai suoi sostituti solo a metà dicembre sono arrivate altre centinaia di carte da Napoli. Palazzi starebbe indagando soprattutto sul Siena, per cercare di scoprire se Moggi ha avuto davvero un ruolo attivo nell'acquisto del club. Ipotesi, peraltro, sempre smentita dai proprietari della società toscana, ad iniziare da Giovanni Lombardi Stronati, che è l'amministratore delegato. Pare in realtà che Moggi "spingesse" per un'altra cordata, poi sconfitta. Su Calciopoli non si riesce mai a mettere la parola fine: al processo di Napoli, quando inizierà, sfileranno centinaia di testimoni. Tutto il mondo del calcio, di ieri e di oggi. Ci vorranno anni per venirne a capo.

9 febbraio 2008

Servizi TENTATO OMICIDIO: NO CARCERE,18ENNE IN “AFFIDO”SERVIZI SOCIALI

Servizi TENTATO OMICIDIO: NO CARCERE,18ENNE IN “AFFIDO”SERVIZI SOCIALI

Genova, 8 feb. - L’accusa chiede sette anni di carcere per un giovane imputato di tentato omicidio e il Tribunale lo condanna a tre anni di “messa in prova” con i servizi sociali: e’ la sentenza emessa dal Tribunale dei Minori di Genova, in composizione collegiale presieduta da Adriano Sansa, nei confronti di A.D., diciottenne di origine albanese e clandestino in Italia che, nel giugno 2007, aveva mandato all’ospedale, per avergli rotto la testa con una sedia di ferro, un ventidueenne di Rapallo. La lite fra i due, sfociata in rissa fra italiani e albanesi per futili motivi, risale al giugno del 2007 ed avvenne a Villa Porticciolo, un locale di Rapallo. L’imputato per tre anni dovra’ eseguire tutte le direttive imposte d gli assistenti sociali di Chiavari; A.D. era difeso dai legali Emanuele Canepa e Matteo Groppo. (AGI)

Galliani attacca il procuratore Palazzi E Matarrese pensa all'Europa - Spy calcio - Repubblica.it

Galliani attacca il procuratore Palazzi E Matarrese pensa all'Europa - Spy calcio - Repubblica.it

Un problema in più per Giancarlo Abete: l'amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, è anche consigliere federale e ha rapporti pessimi con il superprocuratore Stefano Palazzi e ha intenzione di rendergli la vita difficile (come non si sa). Il motivo di questa fortissima antipatia? Molto semplice: Palazzi ha deferito il Milan (e anche l'Inter) per la questione delle plusvalenze, dopo che il gup di Milano aveva appena archiviato il caso. Anche il Cesena è stato assolto perché il "fatto non costituisce reato". Ma per Palazzi è reato sportivo e quindi Milan e Inter vanno a giudizio. In via Turati sono stupiti anche perché il superprocuratore non ha interrogato nessuno, ma si è fidato solo delle carte del tribunale: anche se, pare, che il caso sia stato affidato a sostituiti procuratori esperti di bilanci. Sembra che Galliani volesse chiedere addirittura le dimissioni di Palazzi, cosa peraltro non possibile. Ma il comunicato del Milan si chiede come mai in altri casi la superprocura non si sia ancora mossa: secondo i giudici sportivi, la situazione della Roma (condannata ad un ammenda in primo grado dal tribunale) e della Lazio (prosciolta) sarebbe prescritta dal punto di vista sportivo. Non tutti sono dello stesso avviso. E la Juventus e le altre? Ci sono le procure che stanno indagando: a Torino sta per concludersi la fase preliminare. Può darsi che Palazzi si faccia vivo più avanti (a proposito: che fine ha fatto Calciopoli-2?). Galliani è già stato condannato a 8 mesi per Calciopoli-1 e un'eventuale altra condanna gli creerebbe grossi problemi, soprattutto adesso che ha ripreso un ruolo di primo piano nel mondo del calcio (vedi Spy Calcio del 6 febbraio): ma non è detto che succeda, ora ci sarà il processo e gli avvocati di Milan e Inter (Cantamessa e Raffaelli) sono più che mai agguerriti, e alleati su questo fronte. Pessimi rapporti, improvvisamente, anche fra Juventus e Inter. E' successo dopo la frase velenosa di Massimo Moratti riferita alla "banda di truffatori" e quello scudetto perso dall'Inter nel 2002. Pare che Luciano Moggi voglia querelare, con rischiesta di danni milionaria. Cobolli Gigli si è risentito, e i giocatori di allora (Ferrara in testa) pure. Abete dovrà riportare la serenità. Molta agitazione anche in Lega Calcio, a Milano: che farà Antonio Matarrese in autunno? Si ricandida? Sarà ricandidato? Lui vorrebbe andare in Figc, ma lì c'è già Abete, o magari Matarrese punterà ad un ruolo internazionale dopo che ha riallacciato rapporti con Blatter e Platini. Nel 2009 invece si vota per il Coni: avendo rinunciato ad un seggio in Senato, Gianni Petrucci si sente più forte che mai. Anche perché sa che il prossimo governo, quale che sia, non avrà più un ministero dello Sport ma un sottosegretario alle dipendenze della presidenza del consiglio. Per Petrucci, questa, è un'ottima idea ma per ora si guarda bene dal dirlo: l'importante, per lui, è che non ci sia più Giovanna Melandri, con la quale ormai ha rotto ogni rapporto. E' dai primi di dicembre che non si parlano più...