Privacy, assolto l'impiegato che spiò i dati di Prodi e signora - Il Sole 24 ORE
Una sbirciatina veloce a dati non riservati. Solo così il dipendente dell'agenzia delle Entrate evita una condanna penale per accesso abusivo all'Anagrafe tributaria. Entrare nel sistema per soddisfare una propria curiosità non costituisce reato di per sé. Occorre che il lavoratore del Fisco sappia di stare violando la privacy dei cittadini, contro la volontà della stessa amministrazione finanziaria. A stabilire come e quanto sia lecito farsi gli affari dei contribuenti, senza alcun motivo di lavoro, è il Gip del tribunale di Nola, nella sentenza 488 del 14 dicembre 2007 (di prossima pubblicazione su «Guida al Diritto»): pur consapevole dell'orientamento della giurisprudenza in materia, non se l'è sentita di far pagare caro quello che ha considerato una sorta di peccato di ingenuità.Il magistrato ha assolto «perché il fatto non costituisce reato» un dipendente delle Entrate di Nola che, in assenza di una qualsiasi attività di accertamento tributario in corso, è entrato fugacemente nel sistema pubblico per consultare i dati anagrafici di due "schedati" eccellenti: il premier Romano Prodi e signora.Il fatto che l'uomo abbia aperto, per qualche attimo, la banca dati allo scopo di «prendere cognizione» di informazioni di pubblica conoscenza e conoscibilità (come quelle anagrafiche) e non sottoposte ad alcuna forma di tutela della riservatezza, secondo il magistrato, fa pensare che «egli non si sia reso nemmeno conto che vi potesse essere una tacita volontà contraria da parte dell'amministrazione». Insomma, non c'era alcun dolo e così il reato previsto dall'articolo 615ter del Codice penale non si è perfezionato.La norma, vale la pena ricordarlo, punisce chi si introduce abusivamente in un sistema informatico o protetto da misure di sicurezza e chi, pur in possesso di tutte le password necessarie, vi si mantiene «senza la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo». Ora, a parere del giudice campano, sfruttare la possibilità di accesso a un sistema protetto per fini diversi da quelli per i quali si è autorizzati, sicuramente equivale a forzare in qualche modo la banca dati. Però quello che conta – e fa la differenza – è l'elemento psicologico del reato. Dal punto di vista dell'elemento oggettivo, cioè, il delitto c'era; ma la convinzione di non star facendo nulla di illecito ha bloccato l'azione penale nei confronti dell'impiegato dell'Erario; azione che invece sembra essere proseguita a carico di una sua collega, "colpevole" di aver dato un'occhiata anche alle dichiarazioni dei redditi dei due Vip; ovvero a informazioni molto meno pubbliche.A quanto pare, a fare da spartiacque punitivo è il contenuto della futile sbirciatina, all'interno dell'Anagrafe tributaria. Quasi che i dipendenti possano ricercare indirizzi e date di nascita all'interno della banca dati fiscale come fosse "google" o qualsiasi altro motore di ricerca telematico. Un principio, questo, che non sembra convincere del tutto, perché finisce con il graduare la protezione degli utenti. E che in questa fase rischia di alimentare preoccupazioni in chi guarda con timore all'uso massiccio della telematica e all'anagrafe fiscale dei conti correnti bancari.La sentenza di Nola è una delle terminazioni dell'azione giudiziaria innescata nel 2006, su tutto il territorio nazionale, da un esposto del ministero dell'Economia per le presunte "spiate illegali" dei conti bancari di alte cariche dello Stato, personalità politiche di appartenenza diversa, oltre a personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport.
PRIVACY DAILY 24.06.2025
1 giorno fa